INTERVISTA A UNA SIGNORA UCRAINA AL MAPPAMONDO

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INTERVISTA A UNA SIGNORA UCRAINA AL MAPPAMONDO, CHE L’HA CONOSCIUTA ORMAI TRE ANNI FA SOSTENENDOLA NELL’INTEGRAZIONE SUL TERRITORIO E NELLE QUESTIONI EDUCATIVE E QUOTIDIANE

Ci sediamo l’una di fronte all’altra, mascherate, come da Covid si conviene. Nell’altro locale di Mappamondo si sta distribuendo il cibo, le persone entrano con un sorriso grande sul volto, e certe volte non possiamo che interromperci per osservarlo e sorridere a nostra volta di riflesso.

Nonostante la fatica che leggo negli occhi di A., la trovo sorprendentemente serena. Quando poi comincia a raccontare, capisco di aver letto male, non è serenità, ma una maschera che indossa da chissà quanto tempo.

Mi parla immediatamente della guerra, e che i suoi genitori sono vivi, per fortuna.

Le chiedo di fare un passo indietro, e di raccontarmi di lei.

E’ venuta in Italia diversi anni fa, quando, ormai trentenne e con un figlio, visto la difficoltà a trovare lavoro dopo la chiusura della fabbrica in cui lavorava ha deciso di tentare la sua fortuna in Italia. Con un macchina, tramite un conoscente -che sottolinea essere una persona ben diversa da un’amica-, dopo un lungo viaggio è arrivata a Como. Da sola, lasciando il figlio a casa coi nonni, per non esporlo a rischi troppo grandi.

Ogni giorno è stato una fatica, ogni giorno un dolore, alla ricerca di una linea telefonica per poter parlare con il suo bambino in ogni minuto libero che aveva. Qualche lavoretto, poi diversi mesi senza far nulla, senza mangiare, con l’angoscia di non farcela e dover tornare indietro con il suo fallimento.

Poi, è arrivato un lavoro come badante, una casa in condivisione, una situazione un pochino più stabile. Allora ha potuto ricongiungersi con suo figlio, portare anche lui in Italia. Gli ha insegnato le lettere e le cifre, e pian piano a leggere qualche cosa di semplice. Le stesse cose che aveva imparato lei nei mesi precedenti, con grande impegno, per potersi inserire al meglio in un luogo che non le apparteneva. Lo ha fatto bene, tanto che suo figlio, nonostante fosse già grandicello, ha potuto inserirsi nella classe scolastica in linea con la sua età, dopo un breve test per comprendere il suo livello. Anche per lui è stato difficile, mi racconta A., era solo, per il semplice fatto che non comprendeva la lingua e quindi tutto quello che gli stava attorno. Poi pian piano ha cominciato a “parlare”, e le cose sono andate meglio. “I bambini gli facevano molte domande sul luogo da cui veniva, Cerniutsi, e lui si sentiva importante”.

Da allora le cose per loro sono andate abbastanza bene, anche se non sono ancora cittadini italiani e non hanno la residenza.

Cerco di comprendere meglio il suo passato, ma A. vuole parlare di oggi, del presente, della guerra che sta devastando il suo paese e non me la sento di darle torto.

Mi racconta dei suoi genitori, che sono riusciti a raggiungerla in Italia il primo giorno dopo lo scoppio delle ostilità. Sua mamma è malata, e dopo due giorni in auto aveva gli arti così gonfi da non riuscire a scendere dalla vettura. Non hanno portato che poche cose con loro, non c’è stato tempo. “In un attimo, non c’è più niente. La tua casa, le tue cose, tutto scomparso.”.

Mi rendo conto che continuo a commentare le sue frasi con la parola “Immagino”, ma che non è del tutto vero: mi terrorizza solo l’idea di immaginare davvero cosa stanno passando, cosa stanno vivendo.

Ora la preoccupazione di A. è per suo fratello, che sta cercando in questo momento di uscire dai confini con la sua compagna e il bambino di due anni. A. mi racconta che non lo faranno passare, lui è un uomo, serve sul fronte, deve combattere. E la sua compagna non vuole lasciarlo, ha paura, il bambino è così piccolo e ha bisogno di entrambi i genitori.

Io l’ho rassicurata, ma ha paura. Le ho detto che gli italiani stanno aiutando tanto, che se si sta qui non c’è da preoccuparsi perché gli italiani sono brave persone, organizzate e disponibili ad aiutare” mi dice, e mi fa sorridere,  non so bene se per la sua buona fede, la sua innocenza o per il mio realismo cinico che fatica a mandar giù le sue parole.

Ma lei continua il suo racconto.

Mi sono raccomandata con mio fratello di non tornare mai a casa, perché arriva la lettera della guerra e poi deve andare a combattere, ai nostri vicini è già arrivata”, mi confida. Non posso che pensare che certe cose sono come me le raccontava il mio nonno, ai periodi della guerra nazi fascista. Anche lui scappava e non poteva tornare a casa perché l’avrebbero mandato al fronte, e lui non ci voleva andare. E di nuovo un commento dal cuore: come dargli torto. La guerra è veramente una cosa vecchia, da certi punti di vista.

E, indubbiamente, è un grande schifo.

Interrompe i miei pensieri, nelle sue parole non c’è rabbia né rimpianti.

La pace deve essere in tutto il mondo”, mi dice con gli occhi che sorridono, “non bisogna creare problemi, ma cercare di stare bene. Qui non si parla solo di Ucraina. Si parla di famiglie che rimangono lì, che non possono scappare e che vengono ammazzate. Ma bisogna essere forti e sperare che questo finirà presto”.

La guardo sbattendo gli occhi, non so cosa dire, mi sembra di essere Alice in un mondo che mi è sconosciuto. Nell’incubo, anche e comunque Alice in un mondo meraviglioso, perché non ci sono solo persone che fanno la guerra, ma anche persone che inneggiano alla pace, alla vita, al coraggio e alla speranza.

E questo è il grande insegnamento che A. mi ha regalato oggi, e che mi darà da riflettere per i giorni futuri.

Il seme della speranza va continuamente coltivato, per poter lasciare davvero qualcosa di bello e di migliore ai nostri figli.

Veronica