L’IMPORTANZA DEL MARE
Lettera di un’educatrice ai bambini di Fata.
Io non so cosa voglia dire vivere in una casa con tanti bambini, che non sono tuoi fratelli e tue sorelle, e con adulti che non sono i tuoi genitori.
Io non posso immaginare cosa significhi ritrovarsi in un nuvolone nero di sentimenti che ti stanno stretti ogni volta che pensi a mamma e papà.
Io non so cosa voglia dire ritrovarsi ogni giorno a ricostruirsi, mettendo insieme i pezzi, con la paura di non riconoscersi, o di riconoscersi troppo in qualcuno che si teme.
Tante cose io non so, nonostante i tanti insegnamenti di vita che bimbi come voi ogni giorno, da tanti anni, mi state dando.
Però vi ho guardati, ammirati, vi ho accompagnati negli anni a scuola, nell’incontrare chi ha deciso al posto vostro, cercando di fare il vostro bene, oppure pensando solo a se stessi. Vi ho visto piangere, ma molto più spesso ridere. Vi ho visto cadere, ma molto più spesso alzarvi in volo con una forza inimmaginabile.
Una delle cose più belle, però, è stato vedervi in vacanza. Bambini che non avevano mai conosciuto il mare, o semplicemente che non avevano mai potuto permettersi il relax, il rilassarsi, il distrarsi da tutto e lasciarsi andare a vivere la giornata.
Meravigliosi, nel giocare senza pensieri. Pensieri e preoccupazioni lasciate a casa, temporaneamente rinchiuse in una gabbia del “quotidiano” che in vacanza non è concessa, è troppo pesante da trasportare nei bagagli insieme ai costumi e agli ombrelloni.
Ho visto tante persone andare in vacanza, ma nessuno mi è mai parso libero come voi, bambini speciali, quando giocate sulla sabbia. Forse, chi ha pesi enormi sulle spalle, quando può concedersi di lasciarli a terra, può volare molto più in alto degli altri.
Per questo servono le vacanze, per questo serve il mare, la montagna, il poter partire. Per lasciare per un po’ preoccupazioni pensieri e paure. E giocare per un pochino ad essere bambini spensierati. Spensierati come gli altri bambini
La scuola, crescere tra le difficoltà
La primavera è una stagione di grandi cambiamenti. A marzo si iniziano a sentire le prime fatiche a scuola, sia per i bambini e i giovani che si ritrovano in tale realtà, e sia per gli adulti che assumono il ruolo di accompagnatori, sostenitori e aiutanti nel percorso di formazione scolastica e conseguente maturazione.
Come indicato da Alesi (2013), la scuola è un’esperienza della vita. Essa è luogo di costruzione della conoscenza e della personalità del singolo individuo, diventando per quest’ultimo un luogo socio-culturale.
Attraverso l’istruzione e l’educazione l’individuo si abitua all’uso della ragione, ai buoni sentimenti e al buon utilizzo delle regole e delle leggi. Tale percorso formativo, quindi, formerebbe il futuro cittadino una volta integratosi nella società e nella propria collettività (Alesi, 2013). Di conseguenza, la nostra storia come individui appare quindi correlata alle origini e agli sviluppi dell’istituzione scolastica: tale origine storica risale agli intenti legislativi a partire dall’Unità d’Italia fino ai giorni nostri.
Nello specifico, il vero e proprio atto di nascita del sistema scolastico è stato rappresentato dalla legge Casati: Vittorio Emanuele II ne emanò le leggi il 13 novembre 1859, nonostante inizialmente avrebbe dovuto trattarsi di leggi indirizzate al solo sistema scolastico piemontese, in seguito esteso per conseguenza alla Lombardia. Il regno d’Italia fu proclamato nel 1861 e soltanto dopo tale data la legge Casati fu estesa alle altre regioni, rimanendo in vigore per un lungo periodo di tempo (Santamaita, 1999). Tale ordinamento, però, si basò su un’idea di scuola che non comprese il settore dell’infanzia, ossia la base e il punto primario della formazione individuale. Difatti solo in seguito, nel periodo tra fine Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, nacquero vere e proprie iniziative rivolte all’idea concreta di istituzione come scuola: sorsero così i primi istituti della fanciullezza e tale mutamento portò a riconsiderare l’ambiente familiare e la figura del bambino, che divenne caratterizzata da pieni diritti (Santamaita, 1999).
Proprio la famiglia occupa un ruolo centrale nel percorso di formazione che si delinea dall’età infantile fino all’adolescenza e oltre. E’ essa stessa il primo contesto in cui il bambino, e successivamente l’adolescente, deve poter riconoscere un luogo sicuro, un appoggio e un sostegno. Ed è sempre la famiglia, insieme alla scuola, la prima a dover comunicare e confrontarsi efficacemente in merito all’andamento formativo del proprio figlio. Per contro, la scuola deve riuscire a comunicare sicurezza e rassicurare il genitore, sia in presenza di classiche difficoltà relative allo studio e alla comprensione, sia in presenza di problematiche più serie che avrebbero bisogno del ricorso a eventuali specialisti.
Lo studente alle prime armi, difatti, ha necessità implicite e sottintese che, di sovente, potrebbero non venir considerate appieno. La famiglia, o chi ne fa le veci, ha il compito di operare a favore di una buona integrazione. Difatti l’alunno ha bisogno fin dai primi tempi di essere continuamente seguito nello studio e nei compiti, motivandolo e aiutandolo senza pretendere l’impossibile da esso, ma solo trasmettendogli l’importanza dell’impegno. Di fronte ad un nuovo percorso formativo alcune materie potrebbero inizialmente risultare difficoltose, oppure potrebbero insorgere disagi nei rapporti con gli insegnanti o con i compagni tali da compromettere l’attività di studio e comprensione. “Parlate con i vostri figli, imparerete a conoscerli” (Di Marco 2017, pag.98) è una citazione che riporta alla necessità di un supporto non solo formativo ma anche morale, attraverso l’ascolto e il dialogo.
Altro punto cardine è l’aspetto comportamentale: capita di sovente che lo studente si rapporti in maniera differente a seconda che si trovi tra le mura domestiche all’interno della propria famiglia, oppure esternamente all’interno del contesto scolastico. Secondo Di Marco (2017), tale differenziazione appare normale, essendo la scuola un luogo sociale a parte, con proprie situazioni e dinamiche diversificate da quelle familiari. E’ a tal punto che ritorna essere un punto necessario il rapporto scuola-famiglia, tale da permettere un confronto su determinati atteggiamenti e sul perché lo studente li mette in atto.
In ambiente scolastico potrebbero anche insorgere difficoltà più specifiche, legate all’apprendimento, che richiedono interventi da parte di esperti quali medici o professionisti del caso. Ad esempio per quanto riguarda le disabilità più o meno gravi, come nel caso di soggetti con ritardi cognitivi o sintomatologia relativa alla problematica “Autismo”. Tale ultima denominazione deriva dal greco “autòs”, ossia “se stesso”. Il termine si riferisce a una serie di disturbi nell’area del linguaggio, relativi a un ritardo o un’assenza dello sviluppo linguistico con difficoltà nella comunicazione verbale e non verbale. Di conseguenza queste mancanze determinano problematiche nell’interazione sociale: i soggetti autistici difatti mostrano incapacità nello stabilire un contatto con l’altra persona e nel condividere emozioni o interessi. Inoltre, mostrano ulteriori problemi nell’area dell’immaginazione, con carenza nell’attività del gioco spontaneo e messa in atto di gesti/comportamenti ripetitivi e stereotipati (Battipede, 2016).
Queste forme di disabilità, una volta rilevate, devono essere supportate da una corretta interazione scuola-famiglia, al fine di una giusta integrazione del soggetto in ambiente scolastico e nel gruppo dei pari. Al giorno d’oggi esistono diverse scuole o centri specializzati realizzati appositamente per persone con disabilità o problematicità, capaci di offrire loro percorsi educativi improntati allo sviluppo o al miglioramento di determinate aree carenti, per un’autonomia futura e un’integrazione in società.
Spostando l’attenzione verso altre tipologie di difficoltà, si possono delineare altri raggruppamenti: Dsa (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) e Bes (Bisogni educativi speciali).
La legge 170/2010, come indicato da Di Marco (2017), specifica quali siano i Disturbi Specifici dell’Apprendimento:
- Dislessia: difficoltà nella lettura e nella comprensione di ciò che si legge
- Disgrafia: disturbo nella riproduzione scritta di segni e numerici
- Disortografia: disturbo linguistico caratterizzato da omissione, sostituzione o inversione di grafemi
- Discalculia: disturbo che riguarda le abilità numeriche e aritmetiche
- Disprassia: disturbo della coordinazione e del movimento
Gli allievi con tali complicazioni necessitano di particolare supporto, tra cui l’utilizzo di strumenti compensativi (ad esempio audiolibri, mappe concettuali che mostrino collegamenti tra determinati concetti, software o programmi quali correttori o suggeritori ortografici che agevolino la scrittura, calcolatrice), e misure dispensative tra cui una riduzione del carico dei compiti con eventuali riadattamenti delle parti di studio, o una parziale riduzione del programma di studio per materie come la lingua straniera in forma scritta (Di Marco, 2017). Naturalmente queste difficoltà devono essere diagnosticate da esperti in materia, ma si necessita un accorgimento da parte di insegnanti e genitori per agire nell’immediato. Tale punto per porre l’accento sulla continua importanza del legame scuola-famiglia che, se efficiente e tempestivo, potrebbe ridurre il disagio creatosi nell’alunno, ad esempio sentirsi differenti rispetto ai compagni, diventare oppositivi nei confronti della scuola o mostrare un cambiamento dell’umore e del comportamento (Di Marco, 2017).
Una tematica in parte differente, invece, riguarda i soggetti con Bes (Bisogni Educativi Speciali). Gli alunni compresi in tale denominazione mostrano svantaggi che potrebbero riguardare l’ambito sociale, economico e culturale, e avere difficoltà emotive e disturbi del comportamento. Tali alunni necessitano di interventi educativi personalizzati, come sostentamento alla situazione attuale del soggetto. Si reintroduce nuovamente l’associazione scuola-famiglia: anche in questo caso appare evidente e necessario condividere la situazione dello studente e attivare una rete di aiuto nel caso di gestione difficoltosa, ad esempio tramite collaborazione con psicologo o servizi sociali. Utile anche la figura dell’educatore all’interno di spazi comunitari, o la figura del mediatore culturale in caso di alunni stranieri, ad esempio nell’aiutare a capire la difficoltà e il disagio dell’alunno, difficoltà magari causata da una sottovalutata incomprensione della lingua italiana (Di Marco, 2017).
Per concludere, tali argomentazioni scaturiscono dal bisogno essenziale di istruire qualunque persona, presa nella sua unicità, e formarla per un’acquisizione di autonomia sempre migliore, garantendone un graduale e adeguato inserimento in società. Per far in modo che questo possa accadere, la scuola come istituzione deve essere nelle condizioni di poter cooperare con il sistema famiglia. E, viceversa, la famiglia deve poter fare affidamento su se stessa e sulla scuola, oltre che su una rete di servizi che possano offrire aiuto e supporto in caso delle molteplici necessità in precedenza descritte.
Infine, riporto una citazione del libro Cuore di E. De Amicis, che custodisce il senso delle parole sopra esposte:
“[..] la tua vecchia scuola, dove ti s’è aperto l’ingegno, dove hai trovato tanti buoni compagni, dove ogni parola che hai inteso dire aveva per iscopo il tuo bene, e non hai provato un dispiacere che non ti sia stato utile.” (De Amicis 1969, pag. 165).
Dott.ssa Pamela Liuzzo
Bibliografia:
Alesi G., Appunti di Psicologia scolastica e non solo. Armando editore, 2013
Battipede S., Autismo. Comprendere la persona autistica. Youcanprint, 2016
De Amicis E., Cuore. Editrice AMZ Milano, I edizione 1969
Di Marco D., La scuola spiegata alle famiglie. Lit Edizioni Srl, 2017
Santamaita S., Storia della scuola: dalla scuola al sistema formativo. Pearson Italia S.p.a, 1999
Gli effetti benefici del multiculturalismo
Secondo la psicologia culturale (cultural psychology) ogni individuo è essenza della propria cultura. Il termine “cultura” difatti rappresenta un ambiente invisibile in cui siamo totalmente immersi, come indicato da Anolli (2006).
Secondo studi recenti di Richerson e Boyd (2005) la cultura è radicata nel cervello delle persone e ne assimilano le fondamenta. Tale nozione è alla base del concetto di monoculturalismo, aspetto primario caratterizzante la mente dell’essere umano agli inizi del XXI secolo (Anolli, 2006).
Una mente monoculturale coincideva con la rappresentazione di un’unica realtà possibile attraverso la quale l’individuo ne scaturiva propri modi di vedere, pensare e agire. Come conseguenza, insita nell’individuo si delineava una propria identità assoluta che permetteva di evolversi in ciò che la propria cultura permetteva di divenire.
Fin dagli scritti dello psicologo russo Lev Vygotskij (1896-1934), fondatore della scuola storico-culturale, si è posta attenzione all’influenza del contesto socio-culturale sullo sviluppo cognitivo. Secondo Vygotskij la cultura specifica in cui i bambini sono inseriti e le interazioni che instaurano influenzano lo sviluppo del bambino stesso, determinando una stretta correlazione tra apprendimento e crescita. In questo modo risulta primaria e fondamentale l’interazione tra persone e idee, a differenza invece di quanto affermato da Jean Piaget (1896-1980), studioso della psicologia dello sviluppo per gran parte del ventesimo secolo (Shaffer, 2005), il quale concentrò i propri studi sull’interazione tra bambino e ambiente fisico non considerando importante la pressione culturale esercitata.
Col passare degli anni il concetto di monoculturalismo è diventato obsoleto, ai nostri giorni si necessitano capacità insite nell’essere umano come pensare, vedere e agire secondo le diverse situazioni culturali.
Iniziò a delinearsi in tal modo il concetto di multiculturalismo, in grado di far distinguere le diverse componenti etniche all’interno delle società odierne. Tale passaggio, dalla caratteristica di monoculturalità a quella di multiculturalità, appare importante poterlo sottolineare e definire tra le giovani e nuove generazioni, rendendo necessaria la collaborazione con le figure principali di riferimento di cui fanno parte non solo i genitori, ma anche insegnanti e operatori sociali. (Anolli, 2006).
L’impegno comune permetterebbe di generare una realtà sociale caratterizzata da rispetto, tolleranza e solidarietà, imparando a “riconcepire gli altri e noi stessi come esseri umani concreti e specifici, anziché come modelli culturali” (Sennett 2014, pag.100). Difatti, lo sradicamento dello “straniero” non deve essere percepito come un processo distorto, ma come una fase unica e individuale che possa amalgamarsi nella società stessa in cui avviene, riducendo o eliminando la sensazione diffusa della diversità. Proprio tale diversità può essere alla base del disagio emotivo insito nello straniero, che percepirebbe i suoi comportamenti come sbagliati e fonte di vergogna, col rischio conseguente di scalfire la propria integrità morale (Sennett, 2014).
In merito a queste considerazioni, all’interno dell’associazione Fata Onlus è avvenuto recentemente l’ingresso di due ragazze straniere, già in Italia da qualche tempo ma mai rapportate a una realtà di convivenza quotidiana con altre coetanee di etnie differenti dalla loro.
Nonostante la difficoltà iniziale che possa scaturire da tali interazioni, la loro integrazione nel gruppo comunitario è avvenuta e sta tuttora avvenendo naturalmente, come se le tante e differenti culture incontratesi non siano fonte di diniego e imbarazzo, bensì di apprendimento, crescita personale e interpersonale. Il luogo comunitario diventa così una piccola parte di quella realtà sociale in cui gli altri sono concepiti, secondo le parole di Sennett (2014), come esseri umani a tutti gli effetti, e non solo come semplici modelli culturali.
Il riconoscimento e l’accettazione delle differenze culturali porta ad amplificare il proprio bagaglio di conoscenza, imparando quali e quanti altri modi di vivere possano esistere e coesistere. Come esempio concreto all’interno della comunità Fata Onlus è stata riconosciuta e apprezzata la cultura differente attraverso la condivisione di usanze, modi di vestire e stile culinario, accettandone di buon grado colori, odori e sapori, più forti e maggiormente intensi rispetto alla tradizione italiana. Domenica 25 Giugno si è svolta la festa di fine Ramadan, alla quale le due ragazze avevano partecipato rispettando l’usanza tipica della loro cultura di provenienza. Il Ramadan difatti è il nono mese dell’anno nel calendario lunare musulmano, definito “sacro” e in cui si pratica il digiuno (dall’aurora al tramonto) dedicato alla preghiera, meditazione e autodisciplina. La fine di tale periodo è stata celebrata dalle due ragazze in comunità con una cena alla base di piatti tipici, creando un amalgamarsi di culture e tradizioni che ha permesso di far trascorrere un momento di pace e serenità.
L’accettazione delle differenze culturali diventa terreno fertile per la convivenza, la socializzazione e la crescita, che rendono possibile lo sviluppo dell’adolescente e la sua formazione in un adulto con buone caratteristiche. Inoltre, si permette allo “straniero” di riconoscersi in un mondo estraneo e rimanere in contatto con la propria nazionalità, senza che possa andare incontro a una condizione deficitaria di svilimento (Sennett, 2014).
Da tali piccole e importanti realtà sociali come quelle comunitarie, la speranza è che tali sviluppi possano trasmettersi in ulteriori contesti di vita e nel mondo.
Una frase che riassume il concetto sopra esposto alla base di noi esseri umani è quella di Isaiah Berlin, nel suo saggio Vico ed Herder:
“Sono le differenze che importano di più, poiché sono esse a farli ciò che sono, a renderli se stessi.” (Sennett 2014; Berlin 1978, pag. 71).
Dott.ssa Pamela Liuzzo
Bibliografia:
Anolli L., La mente multiculturale. Editori Laterza, 2006
Sennett R., Lo straniero. Feltrinelli Editore Milano, 2014
Shaffer R., Lo sviluppo emotivo. In: Shaffer R., Psicologia dello sviluppo. Raffaello Cortina Editore, 2004